CURIOSITA'


PSICANALISI


Interesse e curiosità, il desiderio di fare una nuova esperienza ed una forte attrazione per tale disciplina furono soddisfatte non appena Stefano ebbe danaro a sufficienza per potersi pagare le costose sedute (tre per settimana) per diversi anni, in base alle previsioni.

Il primo psicanalista, un signore di mezza età, quasi un divo del cinema, dal portamento elegante, capelli brizzolati, robusto ma senza un filo di grasso, lo metteva in difficoltà e disagio. Frequentava belle donne e conduceva una vita che a Stefano sembrava spensierata e piena di agi; quasi lo invidiava.

Con lui non riusciva ad aprirsi, a trovare un punto di contatto; si sentiva impacciato, bloccato.

L'analista gli si rivolgeva con tono deciso, che il paziente interpretava come autoritario, e gli ricordava - più che un giudice o un nemico - un terribile, odiato zio e qualche, pur raro, atteggiamento del padre.

Via, di corsa, da quello studio ai Parioli e, attraverso un amico di famiglia, allora con adeguata posizione, Stefano affrettò, anzi determinò il trasferimento in corso nell'avamposto (sede periferica) in un paese dell'Africa equatoriale.

Al rientro in Italia, dopo circa due anni, il paziente riprese contatto con lo psicanalista, soprattutto per farsi consigliare e, di certo, non per ritornare da lui.

Questi fece conoscere a Stefano la psicanalista italo-americana, avanti negli anni, intelligente, colta, femminile e materna, dal piglio deciso, positiva, informata ma senza atteggiamenti da intellettuale; impegnata politicamente a sinistra. Il giovane stava benissimo con lei; il lavoro effettuato sortì, è da credere, non pochi risultati.

Permissiva, invogliava il paziente ad andare avanti nei suoi tentativi e nelle sue scelte, senza entrare nel merito di queste e senza giudicarle o influenzarle.

Con lei parlò, troppo frequentemente, di due saggi, su problematiche specifiche, che, infine, l'analista gli chiese in prestito senza restituirli più, mai, e senza che Stefano sentisse la necessità di riavere quei libri.

Con tale metodo si era risolta definitivamente la questione; il giovane dimenticò i due saggi e le tesi ivi sostenute.

Dopo una decina d'anni da quando era stato dimesso, guarito, si fa per dire, dall'analisi, pur non scrivendo o telefonando all'analista, mai, nemmeno per le festività, qualcosa che non riusciva a precisare o capire razionalmente lo indusse a telefonarle.

Gli si comunicò l'avvenuta recente morte della signora per un incidente stradale; apprese successivamente che s'era trattato di cancro.

A quella notizia Stefano registrò un vuoto, la sensazione che qualcosa d'importante si fosse dissolto, finito per sempre, un'emozione strana, mai prima avvertita.

Al giovane venne in mente che l'analista (ormai lo conosceva quasi quanto il paziente conosceva se stesso) aveva rimproverato una volta suo figlio per averla chiamata mamma durante una seduta.

L'analista aveva due figli, che vivevano e lavoravano in America; ne aveva parlato incidentalmente in una seduta precedente.

Stefano era pure informato che non venivano mai in Italia, impegnati nelle loro attività; erano i genitori, l'analista e il marito, a visitarli, pur raramente.

Durante quella seduta, un pomeriggio che il paziente ricordava esattamente, dalla stanza accanto allo studio nel quale l'analista e Stefano erano uno di fronte all'altra, concentrati su problemi da capire e chiarire, si udì mamma, mamma, e qualcos'altro pronunciato da una voce limpida, affettuosa e sicura di un giovane uomo; certamente - pensò - uno dei figli dell'analista.

La risposta della signora fu precisa, professionale e dilatoria. Egli si scusò con sua madre. L'analista non si mosse, la seduta andò avanti fino alla fine, normalmente.

Quel giovane non riuscì a dir subito quello che provò ed a cui pensò anche dopo, nei giorni successivi: come una stretta al cuore. Si sentì derubato, tradito, deluso; gli era stata più che portata via, sottratta con inganno e tradimento, la mamma che - ormai lo sapeva - non era sua. Forse è stato bene? Dopo alcune sedute, il paziente esternò alla mamma le sue sensazioni e come aveva vissuto l'episodio.

L'analista confermò di averlo intuito, di saperlo e di aver rimproverato il figlio; chiamarmi mamma (durante quella seduta), era l'ultima cosa che avresti dovuto mai fare, gli disse.

L'episodio fu assolutamente superato; tuttavia, Stefano lo ricorda, dopo anni.

La morte dell'analista-mamma, captata (quasi) telepaticamente, creò, insieme con altre motivazioni, il rientro di Stefano in analisi, il terzo, l'ultimo.

Bella donna, raffinata, elegante, colta, moderna, sicura del suo discernimento, seria, gentile e di poche parole, con un'aria da vera signora, di quelle che piacciono sul serio, lo convinse e lo trattenne in analisi per diversi mesi nel suo studio, arredato con classe, situato in un vasto appartamento di un vecchio edificio Liberty, in una centrale via della città nordeuropea.

La sua terapia si rivelò poco efficace, forse inutile.

Prevalse il destino; ancora una volta, Stefano scappò dall'analisi e da quella magica e meravigliosa città verso il nulla odioso che l'attendeva, molto lontano, ma che l'affascinava visceralmente, irrazionalmente, irresistibilmente. L'aveva voluto quel destino e l'aveva ottenuto. A che prezzo?

Di quella donna, si innamorò più di un po'. Gli piaceva come camminava, lo sguardo, il sorriso, come parlava, tutto di lei.Le dedicò un quadro, un ritratto, che le regalò senza confidarle chi l'avesse ispirato; lei capì.

Poi, con una speciale tecnica grafica, fece riprodurre il ritratto, quasi un'incisione, e fece tirare 50 esemplari; il ricavato della vendita fu devoluto ad una fondazione locale per la diffusione dell'arte.

L'analisi aveva sortito almeno un risultato certo: un piccolo contributo all'arte.

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