IL NOSTRO TEMPO


FELICITA'




Spostandosi l'accento dalla i alla a viene in mente la nota canzone, di due popolari cantanti cui si pensa solo perché, ormai da tempo non hanno più notizie della loro primogenita, sparita nel nulla; non si sa esattamente come, dove e quando, mentr'era in Luisiana.

Trascorre qualche tempo e i due cantanti cercano di riprendere il loro cammino; hanno altri figli cui badare e il lavoro può anche essere terapeutico.

Anche questo è vivere.

Felicita, della Ciociaria, era, invece, una semplice, generosa, energica e forte donna sui settant'anni; non proprio fortunata o felice.

Intelligente e furba; si vergognava d'essere analfabeta e di parlare in dialetto.

Quando si faceva leggere qualcosa, aveva sempre una scusa: gli occhiali erano fuori posto o da riparare ovvero era stanca per prenderli o cercarli ed altre ancora.

La sua unica figlia, trentenne e nubile, era morta da anni per un male incurabile e lei, Felicita, ne soffriva molto, senza parlarne eccessivamente.

Diceva solo ch'era bravissima prima a scuola e poi nel suo lavoro come ragioniera presso un'impresa di costruzioni.
Faceva l'affittacamere per avere gente attorno, per rendersi e sentirsi utile, non per necessità. Aveva del suo e la pensione del marito era, per le sue esigenze, più che sufficiente.

Lo scapestrato andò ad abitare da Felìcita in primavera; tutto lì gli piaceva e gli andava bene e, in aggiunta, l'abitazione - pensionato era vicinissima alla Casa Padronale, dove lavorava, e che poteva raggiungere in meno di cinque minuti, a piedi.

Il quartiere gli piaceva tantissimo sia dal punto di vista architettonico sia da quello urbanistico nonché per l'abbondanza di verde che, fin d'allora apprezzava, e che, spesso senza motivo lo rendeva lieto, leggero, felice.

Gli sembrava d'aver tutto, d'essere al centro del mondo mentre, in realtà, non aveva che pochissimo o quasi niente ad eccezione di se stesso e di un numero invero limitato di stagioni.

Felicita lo accudiva come una madre, una nonna ed una governante messe insieme. Gli voleva bene.

Provvedeva a tutto; preveniva ogni suo desiderio e lo accontentava nelle sue non poche pretese di giovane egoista, ingrato e sregolato.Riteneva allora che tutto gli fosse dovuto, senza nemmeno dover dire grazie.

Le camicie erano stiratissime, le scarpe lucidissime, il vitto ottimo, seppure antiquato come concezione e nella preparazione; troppo ricco ed energetico per i gusti del vanesio che teneva molto alla linea.

In autunno, arrivò Nella, pronipote studentessa di Felicita che abitava in provincia.

Carina, furba, diligente e seria, Nella non era il tipo adatto al vanesio. Risparmiatrice, guardinga, attenta a tutto e misurata in ogni manifestazione, a lui riusciva noiosa; con lei parlava un po' la sera, quando non usciva, cioè raramente.
Comunque, fra loro si instaurarono rapporti di cordialità, normali fra coetanei e, in qualche modo, di complicità, per i piccoli dispetti a Felicita.

Dopo Nella, arrivò un'insegnante, una vera signora cui tutti volevano bene, ed uno studente innamorato che parlava al telefono per ore con la ragazza e che fece quasi disperare la padrona di casa per l'ammontare inaudito e forse erroneo d'una bolletta telefonica che Felicita dette da leggere e interpretare, a turno e riservatamente, a ciascuno dei pensionanti sperando forse in una inesatta lettura o in uno scherzo.

Poi s'ebbe la conferma dalla compagnia telefonica e il problema fu in qualche modo risolto poiché Felicita si decise comunque a pagare.

Frequentava l'appartamento anche la simpatica, lombarda e boteriana vicina di casa dell'affittacamere, Vittoria, che malgrado la mole era sorprendentemente agile e riusciva a stare sulla punta dei piedi.

Impiegata in un ente del quartiere, era quasi sempre in malattia facendosi credere un po' troppo originale o quasi matta alla Erasmo da Rotterdam nell'Elogio famoso; riusciva un tantino sboccata.

Col passare degli anni, si seppe poi, che s'era proprio ammattita.

Un pomeriggio lo scavezzacollo era nella sua stanza. Nella andò da lui e gli disse che non poteva uscire poiché la porta d'ingresso era stata chiusa a chiave, dall'esterno. Ogni tentativo di aprirla dall'interno s'era rivelato inutile.

In casa erano solo loro due.

Pianse e aggiunse che, secondo lei, la zia aveva organizzato il tutto per far si che restassero soli e facessero quello che, allora, avrebbe preteso nozze successive, riparatrici.

Il vanesio la calmò, immaginando invece che la zia doveva aver chiuso la porta inavvertitamente; la pregò di sedersi in cucina, dove la raggiunse; le fece compagnia. Tirate su tutte le serrande, rimase con la ragazza in cucina, come al solito, conversando e aspettando il ritorno di Felicita o di qualche altro pensionante.

Sul tardi, rientrò la zia; tutto sembrava ed era normale e si scusò per la porta chiusa dall'esterno, per abitudine, precisò.
La ragazza, aveva confessato, mentre si attendeva la zia, che questa desiderava affetto e compagnia, il loro matrimonio e che restassero a vivere con lei.

È probabile. Tuttavia non era quello che il giovane desiderava e che avrebbe potuto volere. La ragazza non era il suo tipo e, poi, non pensava ancora al matrimonio.

Probabilmente aveva organizzato il tutto la fanciulla, coinvolgendo, in qualche modo, la zia.

Chi può dirlo?

Comunque siano andate le cose, lo scapestrato o vanesio rimase enormemente grato a Felicita, che lo aveva aiutato in varie piccole o meno piccole necessità ed a cui - secondo il medico prontamente chiamato - avrebbe, quasi, salvato la vita, soccorrendola tempestivamente per una sua improvvisa emorragia.

La rivide anni dopo sul letto di morte; Nella non era potuta venire, disse la sorella di lei che pure conosceva il giovane e quella storia.

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Un sub-sahariano