STAGIONE DELLA VITA


LA PRIMA BAMBINA BIONDA DELLA VITA




Più volte, senza averlo deciso e aiutandomi con la memoria, ho dipinto d'impulso quelle bellissime, minuscole casette sulla collina - per me, allora, alta come una montagna - con vista sul mare, anzi sull'intero golfo delle mie origini, immenso, azzurro, verde chiaro o turchese, a seconda delle stagioni; la spiaggia ampia e con sabbia dorata, caldissima; scottavano i piedini se si camminava piano; si poteva solo correre nelle ore più calde. La sabbia luccicava al sole e il bianco delle onde completava l'insieme, un colore che andava bene sia per il mare sia per la sabbia; un insieme perfetto.

Nessun rumore; soltanto bellezza e quiete.

Lassù erano le casette di villeggiatura dei nonni materni che vi si recavano solo d'estate; eccezionalmente nelle altre stagioni.

I nonni, avanti negli anni, le diedero alle figlie che le usavano a turno o tutte insieme con figliolanza e ospiti.
Le casette, con rifiniture semplici erano costruite con materiali solidi, resistenti alle intemperie ed alla salsedine, avevano bellissime doppie finestre di legno, piccole, su più pareti.

L'edificio più grande aveva pure un terrazzo dal quale la vista era ancora più libera. Si vedeva l'intero golfo e ben oltre; sembrava di scorgere qualcosa fino a lontanissimo, fino all'infinito dell'oggi.

La scala interna, di legno e con la sola pedata, era robusta; portava al piano superiore, parimenti piccolo, e noi bambini, soprattutto io e la sorellina, eravamo sempre su e giù per quella scala. Il pozzo interno era alimentato da acqua piovana, che si accumulava d'inverno.

La cucina era sistemata in un piccolo edificio proprio di fronte al primo, già stalla, separato dall'altro da una breve stradina privata, acciottolata con arte, di rara fattura.

Il forno a legna, dipinto a calce, pure esterno alla casa più grande, si trovava in un terzo edificio, non distante dagli altri due, su un terreno coltivato a frutteto e con molti fichi d'India; il pezzettino di terra si sviluppava, quasi un vero dirupo, verso la parte bassa della collinetta, sul fianco destro, in direzione del mare.

Muretti come sedili, costruiti come opere d'arte più che a regola d'arte, essenziali e bellissimi, separavano i piccoli appezzamenti di terreno e fiancheggiavano la stradina privata, delimitando altro fazzoletto di terra dei nonni, antistante la casetta più grande, dalla quale la vista sul mare era unica, incantevole.

Su questa terra sabbiosa, disponendosi in genere di sufficiente acqua, s'era ottenuto un rigoglioso frutteto, un orto e un piccolo giardino con gerani odorosi, rosmarino, girasoli, margherite, agavi ed altre pianticelle del posto, senza estrosità.
Un enorme fico sovrastava altri alberi, si scorgeva da lontano e soprattutto dalla strada, giù in basso, ai piedi della collina, che univa paesini vicini.

I frutti, fichi, mandorle, pesche, albicocche e mele erano dolcissimi, avevano sapori e odori che non esistono più.
Le casette potevano raggiungersi attraverso un lungo e tortuoso sentiero alle spalle della collina ovvero, più direttamente, tramite una ripidissima, ridente scalinata che partiva dalla strada sottostante, arrivando fin quasi all'ingresso delle abitazioni.

Gli adulti erano stanchi dopo tutti quei gradini; talvolta non ce la facevano a salirli e dovevano riposarsi più volte; noi bambini volavamo quasi su quella scala, che ha il sapore d'un sogno e ch'evoca un palcoscenico immenso, quello della vita inutile di sempre, comica e tragica ad un tempo, indefinibile o incolore altre volte.

Lì tutto era quieto, luminoso, limpido, pulito, senza tempo, senza storia.

Il treno non passava mai ed i binari erano come un elemento decorativo, facevano parte del paesaggio. Non sembrava avessero funzione.

Ricordo d'aver visto il treno solo pochissime volte; faceva un piacevolissimo fracasso, era un'attrazione quel fumo che lo circondava.

La zia disse che una giovane donna finì sotto il treno e morì; non precisò come o perché.

Ci raccomandava soltanto di non attraversare i binari, senza aver prima guardato attentamente da un lato e dall'altro.
Lì la parente veneta, sposata ad un cugino di mamma, Lisetta, ospite della zia, usò il forno.

Il pane non s'è cotto bene disse; si disperò e pianse temendo i rimproveri (o forse i calci) del marito. Allora le donne le prendevano spesso.

Si tirava i capelli e gridava, correndo verso la casa, frasi di grande sconforto.

Lì vidi la prima bambina bionda della vita; sembrava di cera, con chiarissime lentiggini e capelli del colore dei fili interni della pannocchia fresca del granturco; portava occhiali; era più grandicella di me, che avevo meno di cinque anni; era albina, dissero.

Io la trovavo bellissima, la personificazione della bellezza.

E poi non capivo il senso della parola. Non chiesi spiegazioni. Lì fummo sempre insieme e lei mi parlava a lungo, raccontava fino a dopo il tramonto del sole; ci sedevamo vicino ai primi gradini della scalinata, così da poter essere visti dalle mamme. Una volta parlammo fino a tardi, era buio da tempo, c'erano le stelle e vedemmo caderne qualcuna proprio su di noi. Qualcosa di splendido, misterioso, piacevole e che metteva paura.Lì lo zio col calesse mi portò ai Canalotti, il nome della località, per raggiungere la zia - sua moglie, la sorella di mamma, senza figli - e la mia sorellina -più piccola di me - che, appena auivan. Nidi già dalla strada attenderci all'ingresso della casetta.

Ero contentissimo, non coglievo il senso delle distanze, dello spostamento e non m'aspettavo che si arrivasse così presto; poi, con questo zio non avevo confidenza e non parlai durante quel tragitto. Scesi dal calesse ed ero già a metà della scalinata; lo zio mi raggiunse, mi tirò l'orecchio e pretese che lo aiutassi a portare i pacchi e le borse su per la scala. La zia si oppose; mi difese. Uno zio, da odiare per sempre, da non perdonare o assolvere mai, pensavo da bambino. Lo stesso zio che, con trucchi vari, tenne digiuno per un intero giorno il fratellino che non c'è più per costringerlo a mangiare spaghetti, che a lui non piacevano, e che divorò per fame.

Poi da adulto, gli regalai un cappello che avevo portato da Parigi; lo zio fu molto contento. Sapeva di non meritarlo.
Lì ricordo la mamma, giovane, sana, energica, con i capelli nerissimi e gli occhi d'un intenso azzurro, gli occhi più belli del mondo.

Una notte mi svegliai e la mamma dormiva nel lettone fra me e la sorellina; non ricordavo d'essere andato a dormire.
Lì tutto era incantevole; si mangiava fuori, all'ombra delle casette, in un punto sempre fresco e ventilato; si andava al mare anche di pomeriggio, poi un riposino e quindi giocare, parlare con la bambina di cera, Stellina, quasi una vera stella e con altri bambini delle casette dei vicini.

La sera era sempre festa; tutti sedevano fuori, c'erano tanti lumi a petrolio, il posto non era stato raggiunto dall'elettricità. Alcuni giocavano a carte.

La mamma ritornava a casa nostra ogni tanto per accudire papà, rimasto da solo poiché impegnato nel lavoro. Dopo qualche giorno veniva ancora da noi.

Stavamo volentieri con la zia che ci voleva bene tantissimo, ma non proprio come la mamma che una volta mi portò una gigantesca tavoletta di cioccolata. Non immaginavo ne esistessero di così grandi; la divorai.

Lì vidi, moltissimi anni dopo, mio padre che cercava inutilmente d'aprire con la vecchia chiave la porta di una di quelle casette. Provò e riprovò, s'innervosì, si spazientì, fu colto quasi da rabbia, da eccessivo, incomprensibile nervosismo.
Non capii subito; ma poi quando fummo soli gli dissi qualcosa ed egli abbassò la testa, per assentire.

Quel posto gli ricordava la sua gioventù, la sua felicità insieme con la donna che gli aveva dato quattro figli, nostra madre, andata via per sempre da tutti i palazzi, le case e casette di questo mondo tanti anni fa.

Lì domandai ad un conoscente del nonno, che mi riconobbe, notizie della prima bambina bionda della vita; ero ora con mia moglie e mia figlia, avanti negli anni e in quest'esistenza.

Dissero ch'era insegnante nel Nord, non sapevano se fosse sposata; il fratellino di lei, che pure giocava con noi, era ora carabiniere.Dopo tantissimi anni, andai a prendere possesso delle casette e dei fazzoletti di terra, ereditati dalla zia.

Mi resi subito conto d'essere in un inferno di cemento, in una bidonville autentica, in una vera casba di mattoni e lamiere, con rumori assordanti e luci al neon, un ammasso di case a più piani, mal costruite e progettate, una sopra l'altra, senza senso, senza logica, senza il pur minimo rispetto di alcunché.

Ebbi un moto di rabbia impotente, una stretta al cuore per quella autentica devastazione dove nemmeno un filino d'erba riusciva a spuntare.

Le casette dei nonni erano circondate e sovrastate da costruzioni ultraintensive, fittissime; lo scenario e la vista cancellate da edifici sottostanti, i terreni invasi e occupati da residui costruttivi e altre schifezze, la scalinata, già acciottolata nella pedata e di pietra consumata dal tempo nell'alzata, ora di cemento.

Che orrore, che tristezza, che menti ammalate, pensai; e che scempio!

Decisi di allontanarmi immediatamente e di andar via da quell'indescrivibile risultato dell'attività indefinibile di speculatori selvaggi, senza scrupoli e di amministratori irresponsabili o conniventi.

Diedi via e in fretta il tutto, quasi per un nulla.

Non resta che dipingere a memoria quel paradiso che non c'è più.

 

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